Una sola è la strada per la felicità, dice il saggio.
Oddio, forse dovevo svoltare prima.

sabato 20 dicembre 2014

TOMBOLA E FAGIOLI

Natale è ancora una festa speciale perché è una festa piena di ricordi.
Infatti i Natali di un bel po' di anni fa me li ricordo ancora piuttosto bene.
Le feste si passavano tassativamente in famiglia, e in famiglia prima eravamo sempre in tanti: tanti zii, tanti cugini, e tutti per le feste stavamo là, nessuno in quelle occasioni aveva impegni più importanti.
La famiglia da parte di mia madre è proprio romana romana: nonno Mario (buonanima) era romano de Roma, con qualche svirgolamento verso Tivoli e nonna Elena (buonanima) romana di sette generazioni. Quando mia madre e i miei zii erano piccoli, abitavano a San Lorenzo, e quindi s'erano beccati il bombardamento nella seconda guerra mondiale (cosa che veniva rievocata puntualmente). Poi s'erano trasferiti a Centocelle, a via Tor de Schiavi, e sono rimasti lì in quella casa fino all'ultimo. Ed è lì che sono stati consumati i nostri pranzi natalizi leggendari.

I pranzi di nonna Elena non te li puoi scordare. Ti ritornano su pure in sogno a distanza di decenni. Metteva le spianatore su tutte le superfici piane di casa e sopra ci lasciava riposare chili e chili di pasta fatta in casa. Cucinava quantità industriali di fettuccine, lasagne, cannelloni… Poi abbacchio con le patate e altra roba che doveva rispettare una specifica condizione per entrare nel menù: doveva essere grassa. Cucinava un po' sempre le stesse cose... il baccalà col sugo e lo zibibbo (a Roma l'uvetta si chiama zibibbo), i carciofi con la mentuccia, i broccoli fritti, i carciofi fritti... friggeva tutto, pure la ricotta. I fritti erano soprattutto per la cena della vigilia, per stare leggeri, insieme a due spaghetti con le vongole (due per modo di dire). Alla fine, insieme alla collezione di panettoni pandori e torroni, arrivava a tavola anche il castagnaccio, una specie di pizza dolce marroncina che si mangiava con la ricotta sopra. Ah, e il giorno dopo, a Santo Stefano, per non sovraccaricare lo stomaco già tendente al coma epatico: cappelletti in brodo. E tutto il resto. Ma lasciamo perdere va', che mi si alza il colesterolo solo se ci ripenso.
Negli ultimi anni io e mia cugina avevamo cominciato ad avanzare strane necessità: «Nonna, io sono diventata vegetariana». «A no', io sto a dieta». «Sète giovani, ma sète fraciche», ci diceva lei. «Ve faccio un po' de purè coi fagiolini». Il purè di nonna Elena, più parmigiano e olio che patate, aveva le stessa quantità di calorie di una torta panna e cioccolata, e pure i fagiolini non scherzavano. Tutto, nelle mani di nonna, diventava magicamente grasso.

Eravamo sempre divisi in due tavoli: il tavolo dei grandi e quello dei bambini. Io e mia cugina Isabella siamo rimaste al tavolo dei bambini fino a dopo i trent'anni, intanto che ai cugini si aggiungevano i figli dei cugini.

Dopo il pranzo di Natale era obbligatoria la tombola. Adesso si chiama bingo, ma per noi era e rimarrà per sempre tombola. Non mi venite a dire che la tombola è un gioco divertente. Eppure da bambina io mi ci divertivo, perché i miei zii conoscevano tutti i numeri della smorfia. Poi perché qualcuno tra un numero e l'altro qualche cazzata per ridere la sparava sempre. E poi perché alla fine facevano il tombolino per i bambini e qualcosa vincevi per forza. Per tanti anni le cartelle erano state quelle lisce, di cartoncino, e i numeri si coprivano coi fagioli e si perdeva più tempo a chiedere: Mi ripeti i numeri? perché i fagioli rotolavano via come niente. Poi a un certo punto c'è stato un salto tecnologico, l'avvento delle cartelle di plastica con le finestrelle apri e chiudi.
Dopo la tombola, i grandi si scatenavano a sette e mezzo e mercante in fiera. La peggio era sempre mia nonna. Se vincevi, ti faceva le corna sulle carte e non vincevi più.

Oltre a mangiare e giocare non c'era sentore di una qualche spiritualità. Ah, beh, giusto un anno mi ricordo che il nostro Natale ha sfiorato momenti significativi di cultura musicale. A festeggiare con noi c'erano anche i genitori austriaci di Roswitha (Roswitha è la moglie di uno dei miei cugini. Un nome impronunciabile per nonna Elena, una volta ho sentito che l'ha chiamata Rosbeef, il più delle volte Rosita, come la figlia di Celentano). Quella volta è andata così: a un certo punto del pomeriggio, Roswitha, sollecitata dai genitori, tira fuori un mazzetto di spartiti e ce li consegna spiegando che da loro, in famiglia, è tradizione eseguire insieme i più famosi canti di Natale. E c'invita a cantare tutti insieme. E mentre noi stiamo sotto choc ancora coi fogli in mano, loro, madre padre figlia, nei ruoli rispettivamente di soprano contralto e tenore, cominciano a intonare Stille nacht in tedesco e rigorosamente a tre voci. Stille nacht... heilige nacht... Noi siamo senza parole. Solo un pensiero: tacci vostri, e noi mo' che famo? Finito il pezzo, applauso e, a seguire, lungo momento d'imbarazzo. Chi fischia, chi si taglia una fetta di torrone, chi va al bagno. Ma Frau Christine, la regina madre, non si lascia ingannare, ci guarda e Roswitha ci dice che ora tocca a noi e ci intima chiaramente di cantare qualcosa. Roswitha è austriaca, detesta fare brutta figura. Allora facciamo un rapido consulto, escludendo subito nonna Elena e nonno Mario che stanno ancora sotto choc. Allora: qui non c'è nessuno che va in chiesa, manco uno straccio di Venite fedeli si tira fuori. Io dico: ma scusate, Tu scendi dalle stelle? Dovrebbero saperla tutti Tu scendi dalle stelle! Niente, lo sanno poco e male. Infine, per non deludere gli ospiti, arriva l'unica proposta fattibile. Un classico. Uno due tre, e attacchiamo: Fatece largo che passamo noi, sti giovanotti de sta Roma bella... Roswitha nasconde l'imbarazzo e cerca di tradurre il testo ai genitori, molto probabilmente con qualche modifica.

Ah, ma abbiamo avuto anche altri Natali con ospiti internazionali. Per esempio il primo anno con Marghany, un amico sudanese dei miei cugini.
Non mi ricordo chi di noi gli chiese: «A Marghany, che mangiate voi nel vostro paese quando è festa?» E lui: «Nel nostro paese quando si mangia è festa. Tombola!»
Come tombola? A Marghany, ma che ce sei venuto dall'Africa a fregà i sordi a noi?
E nonna rideva con quella risatina che aveva solo lei.

Chissà se adesso mi guarda da lassù. Se mi guarda, sicuramente penserà: «A bella de nonna, ma come fai a magnatte er tofu?»
Lo so, nonna, c'hai ragione, se c'eri tu me lo facevi diventà 'na bomba calorica con due semplici mosse. Ma tu non puoi capì, adesso è tutto diverso. Tu, nonna, fai parte di un'altra storia. La storia dei Natali di tanti anni fa, di quelle feste molto romane e molto caloriche a casa tua, che passavamo tutti insieme, tutti stretti intorno al tavolo, coi fagioli sulla cartella della tombola che rotolavano via. Che rotolavano via, proprio come gli anni che ci separano dai nostri ricordi. E ammazza quanti anni sono.





sabato 13 dicembre 2014

Racconti fatali: STORIA DI BICE, FATA INFELICE

Ero una figlia d'arte. Mio padre era mago alla corte di Re Artù, mia madre una famosa fata delle nevi sui monti della Svizzera.

Alla tenera età di sei secoli fui mandata in un rinomato collegio per fate, dove avrei ricevuto un'educazione degna del mio rango.
Ma non ero felice, lì. Essere buona, gentile, educata, altruista, sorridente, non erano cose che facevano per me.

Durante una lezione di taglio e cucito trasformai il bidello in formichiere. Si rivelò anche un ottimo aspirapolvere.
Feci ingurgitare un potente filtro d'amore alla mia compagna Dolcilia, che s'innamorò perdutamente di una lampada. Durante una notte d'amore morì fulminata.

Mettevo letteralmente sotto i piedi il mio maestro, il mago Zerbino, il quale convocò i miei genitori.
Così mi portarono da un noto stregone, Sigmund Freddy, che mi tenne in analisi per quasi due secoli. La diagnosi fu sconvolgente: io ero una strega.

Come era potuto accadere? Una mutazione genetica? O forse un'avventura della fata delle nevi?
Fui internata in un istituto di rieducazione in Transilvania per essere recuperata e tornare a vivere in Svizzera con mia madre che, nel frattempo, si era risposata con un mago della finanza.

Le cose, però, andarono diversamente. Con l'aiuto del dottor Jeckyll – una persona ambigua, ma di buon cuore – riuscii a scappare insieme a Franky, un altro paziente dell'istituto: un tipo geniale, elettrizzante, con un fisico da fusto.

Vagammo per alcuni anni su una scopa rubata, passando per la Foresta Nera, il Bosco degli Gnomi e New York di notte.

Un giorno, però, Franky ebbe un malore a causa di un'anemia latente.
Cadde dalla scopa e si schiantò al suolo. Io, che non avevo la patente, atterrai sull'Himalaya e fui soccorsa da uno Yeti, del quale mi innamorai.

Fu una tenera storia d'amore. Lui era dolce, comprensivo e molto peloso. Purtroppo durò poco. Due settimane dopo il nostro incontro, mentre cantavo Singing in the rain sulla neve, fui calpestata da un mammut che passava lì per caso.





martedì 2 dicembre 2014

TERMINI INUSUALI

Noiosità: ecco, non ero sicura che questa parola esistesse.
Invece è presente sul dizionario e significa:

1 Carattere di chi, di ciò che è noioso: l'esasperante n. di una giornata piovosa

2 Ciò che è motivo di fastidio: sono seccato per tutte queste n.

Esattamente quello che volevo esprimere.
Che bella parola noiosità, se non ci fosse bisognerebbe inventarla.