Una sola è la strada per la felicità, dice il saggio.
Oddio, forse dovevo svoltare prima.

domenica 30 novembre 2014

Racconti fatali: STORIA DI BABY GINGER

Non ero ancora nata, ma già sapevo che avrei fatto la ballerina.

Al terzo mese di gestazione provavo i primi esercizi e mia madre andava dicendo a tutti che suo figlio sarebbe stato un calciatore.

Al quinto mese eseguii "Lo schiaccianoci". Fu un trionfo: alla fine suonarono le tube e un folto gruppo di globuli bianchi si coagulò intorno a me.

Al settimo mese passai al tip tap. Mia madre preferiva il classico, ma io, testarda, volli provare.
Anche se mi esercitai molto, i risultati non furono buoni: le scarpe non facevano rumore per via del liquido amniotico, che ammortizzava la risonanza.

Ripresi il classico fino all'ottavo mese. Affrontai una tournée e riscossi un discreto successo di anticorpi.

Non ero ancora soddisfatta.
Per tutto il nono mese provai lo spettacolo del debutto all'estero.
Quando mia madre partorì, uscii danzando "la morte del cigno". Lo ricordo come se fosse ieri: indossavo un tutù di tulle rosa e un paio di scarpette a punta argentate.
Tutti in sala parto erano commossi. L'ostetrica pianse per molte ore di seguito e morì disidratata.

Passai qualche giorno in incubatrice, dove conobbi Fred, nato settimino. Ci innamorammo subito, anche se lui era più giovane di me, e scoprimmo di avere in comune la passione per la danza.

Preparammo un passo a due e provocammo il delirio nel nido. Decine di neonati tentarono di uscire dalle culle per venire a stringerci la mano, ma la ressa provocò incidenti. Fu la strage.
Un'infermiera venne a separarci. Io ero disperata: piangevo e mi dimenavo mentre portavano via il mio Fred.

Passarono i mesi. Il giorno del mio compleanno, mentre ballavo una tarantella napoletana davanti alla torta, incontrai Pedro Tacco de Oro, un ballerino spagnolo di due anni e mezzo. Ci fidanzammo: era la prima volta che mi mettevo con uno maturo.

Organizzammo insieme una serie fortunata di spettacoli presso numerosi asili e scuole elementari, dove ballavamo il tango.
Fu proprio durante una di queste esibizioni che rividi lui, Fred.
Era seduto vicino a una biondina che faceva la capoclasse.
Io trasalii: il mio amore per lui non si era mai spento.

Lasciai il Tacco de Oro e tornai a danzare con Fred. Avevamo ormai tre anni.
Un giorno pensammo di allestire un balletto acquatico nella vasca del convento delle suore.
Ma... maledizione, non sapevamo ancora nuotare. E affogammo.





Racconti fatali: STORIA DI ARTURO, IL PIDOCCHIO CHE NON SAPEVA AMARE

Tutti i miei compagni lo sapevano: cosa potevo farci?
Sin da quando ero lendine manifestavo un certo disinteresse verso il gentil sesso.
Questo disinteresse si rivelò una vera e propria repulsione quando fui pidocchio adolescente.
Gli altri miei amici frequentavano un casinò sulla testa di un operaio del sud. L'arredamento era molto bello: il colore base era il nero, e la moquette morbidissima.
Ma niente mi stimolava. Me ne stavo solo soletto, dentro un ricciolo, a scrivere poesie.

Quando divenni più grande, la mia insana indolenza si accentuò.
«Un pidocchio come te è solo un parassita per la nostra società» diceva sempre mio padre.
Molte pidocchie, prezzolate dal mio preoccupato genitore, cercarono di tentarmi nella sensualità. Una ninfomane provò a ballare nuda davanti a me la danza del ventre, mentre eravamo in vacanza sulla testa di un bagnino di Rimini, che è il massimo della libidine. Niente, non succedeva niente.

Provai inutilmente a distrarmi con lo sport e per un po' praticai il surf su una scaglia di forfora.
Decisi di andare da uno psicologo, che mi consigliò un periodo di ascesi sul codino di un arancione.
Passai dei giorni bellissimi in contemplazione.

Al mio ritorno nel clan conobbi Rosina, una pidocchia perbene, fragile e sensibile. Il nostro fu un amore platonico.
Presto la lasciai, per non farle del male: lei aveva davanti a sé tutta la vita per prolificare.

Rosina la prese molto male. Si uccise gettandosi dalla testa di un giocatore di basket.

Stetti malissimo, e inoltre la comunità mi emarginò.
Vagai per molti giorni da una testa all'altra, senza meta, senza scopo.
Decisi di farla finita. Entrai in una testa di sterminio, volontariamente.
Fu questione di pochi minuti. Dopo lo shampoo antipediculosi morii e il mio corpo senza vita cadde giù per lo scarico del lavandino.
Spero solo che alla prossima reincarnazione mi vada meglio.





venerdì 28 novembre 2014

Racconti fatali: DAISY, LA BELLA MARGHERITA

Daisy si svegliò una bella mattina d'aprile nel giardino della scuola.
Aprì lentamente i petali bianchi e sentì il piacevole calore del sole carezzarle il capolino giallo.

Le api cominciarono a ronzarle intorno. «Che bella margherita!», dicevano.
Le allegre farfalle si rincorrevano festosamente sussurrando alla brezza primaverile: «Che bella margherita!»
«Grazie, grazie a voi tutti». Daisy era felice.

Anche i fiori vicini notarono la sua bellezza e si prodigarono in complimenti.
Le formiche indaffarate tra i fili d'erba furono altrettanto colpite e si strinsero intorno a Daisy cantando: «Che bella margherita, che bella margherita!»
«Sono proprio un fiore fortunato: sono contenta di essere nata». Così, cullata dal venticello della sera, si addormentò.

Il mattino dopo si schiuse per accogliere di nuovo tra i suoi petali i benefici raggi del sole.
«Buongiorno, amico sole. Buongiorno a voi, fratelli fiorellini. Buongiorno Primavera. Buongiorno alberi, fili d'erba, formiche, api. E buongiorno a te, bambino della scuola, che ti stai avvicinando a me».
«Che bella margherita!», esclamò il bambino, e la sradicò dal terreno per portarla in regalo alla maestra.

Così finì la breve vita di Daisy. Era proprio una bella margherita.





giovedì 27 novembre 2014

Racconti fatali: LA FARFALLA COSTANTE


Ero solo una piccola larva, e già la mia timidezza mi rendeva difficile ogni rapporto sociale.
Le formiche mi prendevano i giro e le rane mi facevano i gavettoni.
Ma io mi facevo forza, e andavo avanti.

Un giorno, mentre passeggiavo su una foglia di gelso, urtai involontariamente un baco da seta. Io gli chiesi umilmente scusa. Nonostante ciò, lui mi ricoprì tutta della sua bava appiccicosa.
Io mi feci forza, e andai avanti.

Neanche nello stadio di crisalide ebbi pace: le api usavano il mio involucro per affilare i pungiglioni e le cicale non mi facevano dormire.
E io mi facevo forza, e andavo avanti.

Le cose peggiorarono quando divenni farfalla.
«Sei solo una cavolaia!» mi ripetevano.
Mi sentivo tanto sola.

Incontrai un calabrone, molto distinto nel suo frac, e me ne innamorai perdutamente.
Mi mise incinta e mi abbandonò su una foglia di malva, che è il massimo della miseria.
Da quella unione sfortunata nacque un bruco verde e peloso, e tutti andavano dicendo che mi somigliava.
Io mi facevo forza, e andavo avanti.

Con il mio piccolo affrontai la pioggia, la neve, il vento e i bambini dell'asilo.
Mi ferirono le ali, mi staccarono le antenne.
E io mi feci forza.

Volevo anche andare avanti, ma fui catturata dalla Vispa Teresa.

Non aveva ancora studiato la celebre poesia a lei ispirata e mi stritolò.



mercoledì 26 novembre 2014

Racconti fatali: ODISSEA DI UNA FORMICA NANA

Olga viveva nel formicaio di un parco, dove tutte le altre formiche la emarginavano perché era nana.
Essendo inabile al trasporto dei chicchi di grano, fu scritturata da un circo come clown.
Là si sentiva molto amata.

La sera, dopo l'ultimo spettacolo, rimaneva a giocare a carte con il domatore di vermi e spesso andava in discoteca con le pulci ballerine.

La carriera artistica le stava dando grandi soddisfazioni.

Olga riusciva a far ridere i girini, le api e persino i bozzoli (un pubblico notoriamente difficile).
Le altre formiche cambiarono atteggiamento verso di lei, acclamandola come una diva.
In poco tempo diventò l'attrattiva principale del circo.
Le processionarie facevano la fila per giorni, pur di andare a vederla.

Un giorno s'innamorò di un pidocchio trapezista e la sua felicità fu completa.
Ma lui beveva e diventava ogni giorno più brutale. Divenne un essere spregevole che, per pagarsi l'alcool, avviò la povera formica nana alla prostituzione.
«Sei una bestia!» gli disse un giorno Olga e lui, per vendicarsi, la abbandonò in mezzo a una stradina e scappò per sempre sulla testa di un bambino dai capelli molto sporchi.

Stanca della vita, Olga vagò disperata per mesi nel parco, percorrendo metri e metri.
Una lumaca dolce e gentile le concesse un passaggio e, saputa la sua storia, volle riportarla nel formicaio.
Passò un mese e un altro ancora.
Quando arrivarono a destinazione, il formicaio non c'era più: il bambino con i capelli molto sporchi lo aveva distrutto con la sua paletta.
La povera formica nana, presa dal panico, cadde dalla lumaca e morì, per giunta schiacciata da una pigna che si era staccata proprio in quel momento da un ramo.




martedì 25 novembre 2014

Racconti fatali: STORIA DELLO JODEL

Lo Jodel era un uccello preistorico mezzo giallo e mezzo nero.
I suoi genitori, uno pterodattilo piuttosto provinciale e una graziosa piro-piro delle paludi, avrebbero voluto che diventasse un ufficiale dell'aeronautica.
Ma Jodel non riusciva a volare. Soffriva di vertigini e voleva fare la soubrette di varietà.

Un giorno suo padre lo portò sulla cima dell'Himalaja e lo abbandonò, convinto che ciò lo avrebbe spinto a volare.
Jodel era disperato: sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di tornare indietro.
Durante una fredda notte dell'era glaciale, gli apparve in sogno una gallina padovana, che lo rassicurò: «Non temere, figliolo, sono qui per aiutarti. Ecco, prendi: con quest’armonica a bocca fatata riuscirai a esaudire ogni tuo desiderio».
Come per incanto la gallina svanì e Jodel si ritrovò con un'armonica a bocca tra le zampe.
Cominciò a suonare un motivetto malinconico, esprimendo il suo desiderio di poter scendere dalla montagna.
Uno yeti
 che abitava da quelle parti, seccato per la lagna, lo prese per le ali e lo rispedì in pianura con un calcio.
Jodel era felice. Il suo desiderio si era avverato anche se, nell'impatto con il terreno, aveva ingoiato l'armonica.
Da quel momento, ogni volta che apriva il becco, emetteva solo il caratteristico suono che lo avrebbe reso famoso in tutti i tempi.

La sua leggenda varcò le frontiere. Venivano a vederlo da tutte le parti del mondo.
Jodel si esibiva in un locale frequentato abitualmente da brontosauri in cerca di facili avventure, "La Grotta del Vulcano", e ogni sera il clima era incandescente.
Le folle impazzivano per lui. Incise un disco di pietra che subito salì in testa alle classifiche, superando l'hully-gully e il ballo del qua-qua.
I tirannosauri lo ballavano dalla mattina alla sera, provocando non pochi disastri tellurici.

Il sogno di Jodel di lavorare nel mondo dello spettacolo, dunque, si era avverato.
Decise quindi di andare in cerca della sua benefattrice, la gallina padovana, per ringraziarla.
Viaggiò per anni e anni, superando mille difficoltà e accompagnandosi col suo canto. Finché un giorno, mentre sorvolava il Tirolo su uno pterodattilo di linea, morì strozzato da una pillola per il mal d'aria che gli era andata per traverso.




Racconti fatali: STORIA DI BETTY SINGER



Ho avuto una vita difficile, piena di problemi.
La prima volta che ho tentato di suicidarmi avevo cinque anni. Ingoiai un flacone intero di compresse per il mal di gola. Stetti molto male, ma non morii e mi venne una voce stupenda.
Così iniziai a cantare e da allora mi chiamarono Betty Singer.


Per qualche tempo ho cantato l'Ave Maria ai matrimoni. Poi sono passata al night e infine in un'orchestra romagnola di liscio. È qui che ho incontrato lui, Raoul Tortellino: era bello, forte e suonava il triangolo.
Andammo a vivere per quattro giorni nella soffitta di una casa di riposo. Poi mi lasciò per mettersi con Rosa La Tettona, che ballava bene la mazurka.

Tentai il suicidio per la seconda volta, usando compresse contro i reumatismi.
Non stetti male neanche un po' e non ebbi dolori per tutto l'anno.
Trovai lavoro presso un'agenzia pubblicitaria: cantavo il motivetto di "Caramelle buone e belle".
Qui incontrai Fred Dolone, che faceva la pubblicità alla coperta termoelettrica "Brivido notturno".
Fu un grande amore.
Ma il destino infame volle portarmelo via.
Una notte, Fred morì fulminato per un corto circuito alla coperta.
Al suo funerale c'erano tutti: Camilla la dentiera che brilla, Settebello in due è più bello, Grassottino il biscotto del mattino, Ciak castoro dal dente d'oro e Ciak si gira.

Mi ritrovai sola e disperata. E ingrassata di trenta chili per via delle caramelle.
Non avevo mai sopportato la ciccia: decisi di fare una dieta dimagrante drastica e digiunai per due anni.
Diventai bellissima, alta, snella e con gli occhi azzurri, e fui scritturata come show-girl in un musical di Broadway.
Fu un successo, diventai famosa.
Avevo anche incontrato l'uomo della mia vita, Al-Clic Newman, un fotografo di grido. Insieme comprammo una villa con piscina ed eliporto a Beverly Hills.

Ma finì subito tutto perché presi un gran raffreddore facendo il bagno.
Ero allergica all'aspirina e morii.


giovedì 20 novembre 2014

APLOMB

  • Perfetta linearità verticale di una giacca o di un abitoo, in senso figurato, compostezza, autocontrollo. È l'aplomb. Che bella parola... bella piena... che rimbomba... aplomb... 

  • Io sono stata educata all'autocontrollo fin da bambina. I miei genitori non lo chiamavano aplomb perché persone semplici, lo chiamavano "se non stai zitta t'arriva una pizza".
  • Di per sé l'autocontrollo, anticamera della diplomazia, è una cosa elegante, utile nei rapporti interpersonali. Dà anche un certo stile. Sei sempre sorridente, gentile, caruccia, non ti sfiora niente, non c'è mai problema. Invece il problema c'è. Perché forse la gente non si rende conto che certe cose mi fanno incazzare. Che non è vero che mi sta tutto bene, che non mi accorgo di quello che non va. Sono acidissima dentro e mi accorgo di tutto.
  • Al lavoro per esempio non tollero la mancanza di professionalità e chi mi boicotta: perché non lo sbatto al muro? Perché non lo svergogno pubblicamente? Perché non assoldo un killer per farlo uccidere?
  • Colpa di questo cazzo di aplomb.


mercoledì 5 novembre 2014