Una sola è la strada per la felicità, dice il saggio.
Oddio, forse dovevo svoltare prima.

lunedì 30 ottobre 2017

CHI HA PAURA DELLA FESTA DI HALLOWEEN?

Sarò leggera, sarò svampita, ma io tutta questa polemica contro 'l'invasione' di Halloween non la capisco. Non riesco a capirla.

«Che ci fa una festa straniera qui da noi?» mi suona come l'ossessione in generale per gli stranieri. Mica Halloween è comparso nel nostro Paese clandestinamente, ci sarà stato qualcuno che ha cominciato ad adottarlo perché – bisogna ammetterlo – è molto più divertente del vecchio e sbiadito Carnevale. Vestirsi da strega e da fantasma è obiettivamente meglio che vestirsi da Arlecchino e Pulcinella. E dolcetto o scherzetto se la batte alla grande coi coriandoli. E poi, scusate, ma non eravamo già da un pezzo nell'era globale?


«È solo una festa commerciale», accusano. Ah, beh, sì, perché Natale non lo è? E la festa della mamma (importata dall'estero anche questa, per altro)? Commercialmente Halloween certo che funziona, ha un tema riconoscibile su cui si possono creare gadget, feste, eventi.
 

Quello che mi fa impazzire di più, è sentir dire che dietro ai travestimenti da strega e da vampiro si nascondono davvero le forze del male.
Fatemi capire: quindi se ti travesti da angelo, dentro di te si materializza un cherubino buonissimo e cominci a fare miracoli? Se ti travesti da Arlecchino diventi uno sciocco – però furbo – e non paghi le tasse? E se ti vesti da Pulcinella si materializza dentro di te un mariuolo napoletano? 
Qui non vi seguo. Qui siamo alla superstizione. Mascherarsi è un gioco, punto. Trovo queste argomentazioni indegne di una società evoluta. Ingenue se sincere, paracule se finalizzate a portare tutto sul campo di un integralismo religioso, che forse non ama che si rida e si scherzi sulla paura. Perché... già, è la paura che in fondo ci rende schiavi.
Inoltre, ora che ci penso: da strega, da diavoletto e da vampiro si sono sempre vestiti i bambini anche a Carnevale, senza mai suscitare dibattiti: perché ora è diventato pericoloso?

Esorcizzare demoni e mostri è una pratica antica come il mondo. È ancestrale. È antropologico. Fa parte dei riti e delle feste legate ai cicli della natura, solo che nei secoli le religioni vi hanno sovrapposto le loro ricorrenze. In questo caso, basta andarsi a leggere l'affascinante storia delle origini (irlandesi) di questa festa, che salutava l'inizio del nuovo anno scacciando le paure legate all'inverno e al sonno della terra nella stagione fredda.

Che poi ci sia gente che approfitta di Halloween per delinquere, questo purtroppo fa parte dell'imperfetta natura umana, così ricca di casi di imbecillità: e di questo davvero c'è da avere paura. A me sono gli uomini che spaventano, non i mostri di fantasia. Ci sono gli idioti che ad Halloween bruciano i gatti neri (e io che ho un gatto nero rabbrividisco) e quelli che a Carnevale lanciano arance con le lamette dentro. Come vogliamo definire questa gente? Non diamo la colpa alle feste.

Ah, poi un'altra cosa che mi fa impazzire: "altro che mostri e vampiri, insegniamo ai nostri bambini a onorare i morti". E che problema c'è? Il 31 ottobre dolcetto o scherzetto, il 2 novembre tutti al cimitero.

Leggo molti post anti Halloween che concludono così: «Usa la testa, non la zucca». Io correggerei in questo modo: usa la TUA testa, eventualmente anche la TUA zucca. Del resto 'avere sale in zucca' ha sempre significato 'essere intelligenti'.

Ognuno quindi pensi come vuole e si diverta – o non si diverta – come crede. Lasciando magari liberi gli altri di fare e pensare come vogliono, senza imporre necessariamente le proprie idee. E non mortifichiamo l'ironia: renderebbe il mondo già leggermente migliore.

domenica 24 settembre 2017

SCRIVERE UNO SPETTACOLO PER I BAMBINI. DIECI CONSIGLI PER INIZIARE

Chi fa l'insegnante, l'educatore, l'animatore e lavora quindi con i bambini si sarà trovato, almeno una volta nella vita – ma spesso di più – ad affrontare l'esigenza, o il desiderio, di allestire uno spettacolo, una recita (a Natale per esempio, o a fine anno scolastico). La situazione ottimale è affidarsi a esperti che sappiano guidare i bambini in un percorso teatrale che sia anche formativo. Il teatro è una splendida occasione di crescita e varrebbe proprio la pena sfruttare tutte le sue possibilità. Non sempre però si può disporre di figure esterne specializzate in materia, e quindi non resta che optare per il fai da te. A cominciare dal testo da mettere in scena.

Ecco dieci punti da tenere in considerazione per affrontare la fase della scrittura.

1. Partite da una storia, che abbia un trama riconoscibile, un inizio, uno sviluppo e una fine. Può essere una storia inventata da voi, o già esistente (per esempio potete attingere dalle fiabe o dalle leggende popolari). Una storia ovviamente alla portata dell'età dei vostri bambini.

2. Raccontate la storia ai bambini, osservate le loro reazioni, iniziate a farli partecipare.

3. Chiedete ai bambini di drammatizzare la storia, facendo fare loro i personaggi a rotazione, per vedere che frasi, parole e azioni useranno. E prendete appunti.
 

4. Stesura del copione. Ovviamente il copione non serve per i bambini piccoli, che ancora non leggono: non possono avere dialoghi da imparare a memoria, per loro l'approccio con il teatro sarà diverso, specifico, prevalentemente ludico. Nello scrivere il copione considerate quanti bambini avete e prevedete un numero di personaggi che offra visibilità a tutti. Come? Prendete esempio dai cartoni della Disney: rendete importanti i personaggi che magari in una storia sono minori. Se non ci sono, inventateli. Prendiamo Cappuccetto Rosso: non ha senso far recitare quattro Cappuccetti Rossi e cinque lupi. Fate parlare gli alberi del bosco, i fiori, gli animali. Possono interagire con i protagonisti, fare da narratori, da commentatori. E diventare personaggi molto divertenti e di spicco.
 

5. Non infilate tirate moralistiche e pappardelle didattiche nei dialoghi. Il significato e il messaggio dello spettacolo deve venire fuori dallo spettacolo stesso: altrimenti vuol dire che non è scritto bene.

6. Dovendo prevedere diversi luoghi in cui si svolge la vostra storia, tenete presente, già dalla stesura, che non avrete a disposizione il palco girevole del Sistina, né Dante Ferretti per le scenografie. Se volete una principessa che si affaccia dalla torre in cima alla montagna dovrete essere capaci, in sede di allestimento, di evocarlo con i mezzi che avete. Di solito con una scena neutra e dei praticabili (pedane, piani rialzati ecc.), si può immaginare tutto. È la magia del teatro. Non è però facilissimo pensare una soluzione se non avete l'esperienza sufficiente, quindi semplificate il più possibile i cambi di ambientazione.

7. Vietato mettere nei dialoghi parole tipo “stupido”, “cretino”, eccetera. Mi è capitato di leggere parecchie volte copioni scritti da insegnanti – addirittura da catechisti – con un linguaggio di questo tipo. So bene che nella vita di tutti i giorni si usa e magari fa ridere. Ma no. No, no!

8. Quando finite di scrivere il vostro copione, leggetelo a voce alta. Se ci sono intoppi nelle parole, frasi difficili, lungaggini, espressioni poco naturali, ve ne accorgerete facilmente e potrete fare le dovute correzioni.

9. Prima di iniziare le prove organizzate con i bambini delle letture a tavolino. Questo vi aiuterà a definire le parti da assegnare insieme a loro, testare la scorrevolezza del testo, i ritmi, e la durata. Ricordate che la recita è bella quando dura poco.

10. Se non avete una buona idea per una storia o una preferenza su quella da scegliere, se non avete tempo, o voglia, o pazienza per scrivere un copione fai da te, prendetene uno già scritto. Occhio però, dovrete comunque adattarlo. Buon lavoro!





venerdì 8 settembre 2017

IL TRAMONTO DELLA 'D' EUFONICA

Non mi è mai stata molto simpatica, ma fino a qualche anno fa, bene o male, si riusciva a tollerarla. Nel tempo, per un normale processo di semplificazione della lingua, è andata gradualmente in disuso e ora, tranne alcune occasioni in cui effettivamente ha un suo perché, per quanto mi riguarda  potremmo farle serenamente il funerale.
Mi riferisco alla 'd' eufonica, quella che si lega alla 'a', alla 'e' e alla 'o' quando sono seguite da vocale.

E allora? Qualcuno dirà.
Appunto, dirà «e allora», non «ed allora». Perché farebbe un po' ridere. Perché sarebbe in più.
Anche se la sua derivazione è latina (da et e ad), la 'd' eufonica appare innaturale nel linguaggio parlato (tranne le eccezioni di cui sopra) e di conseguenza in quello scritto.

Da piccoli, a scuola, ci hanno insegnato a usarla sempre: per questo molti non la mollano ancora. È comprensibile, specie se non ci si occupa nello specifico di scrittura.
Però ci sono anche quelli che volutamente abbondano, la ostentano e addirittura la usano a chili in contesti tutt'altro che formali, come mail e post di facebook, pensando di darsi un tono, pensando di sembrare più colti. Beh, è il contrario. Un effetto persino un po' ridicolo, a volte.

Per conferire un minimo di spessore a queste affermazioni, riporto ciò che dice la bibbia in materia di lingua italiana, cioè l'Accademia della Crusca:
«L'uso della 'd' eufonica, secondo le indicazioni del famoso storico della lingua Bruno Migliorini, dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale, quindi nei casi in cui la congiunzione e e la preposizione a precedano parole inizianti rispettivamente per e e per a (es. ed ecco, ad andare, ad ascoltare, ecc.)». 

Devo confessare che io in generale la uso ancora nei testi delle canzoni: per legare meglio alcune parole (che già in italiano con la musica non aiutano) e rendere così più fluidi i versi. Ma piano piano mi allenerò ad abbandonarla (nota: ad - a) anche in questo campo.

Per il resto – sempre considerando le dovute eccezioni – forza e coraggio, lasciamola andare al suo destino, senza rimpianti. È già da un po' sul viale del tramonto. Ed è subito sera.

lunedì 13 marzo 2017

LA STELLA CADENTE



Guarda, una stella cadente! Esprimi un desiderio!»
«Vorrei...»
«No, non dirlo. Se lo dici non si avvera più».
I loro sguardi sognanti e imbarazzati si incontrarono. Erano entrambi percorsi da una strana vibrazione. Rimasero immobili per pochi minuti, che sembrarono un'eternità.

«E tu, invece, cosa hai pensato?».
Lei arrossì. Abbassò gli occhi. «Se te lo dico, ho paura che non si avveri il mio».

Si sfiorarono con la spalla, mentre continuavano a fissare il cielo stellato per evitare di guardarsi.
Poi lui fece ruotare dolcemente la testa fino a sfiorare la guancia di lei. La baciò. Si baciarono.

«Chissà dove vanno a finire le stelle cadenti».
«Già, chissà. Comunque il mio desiderio è stato esaudito».
«Anche il mio».

Il meteorite che con la sua scia luminosa aveva attraversato il cielo quella notte, era caduto su una fattoria del Texas, uccidendo un'intera famiglia composta da nonno, nonna, padre, madre e cinque figli, facendo strage di tutti gli animali e compromettendo in maniera irreversibile flora e fauna del terreno circostante per centinaia di miglia.

domenica 5 marzo 2017

CARA SUOR CARMELA. Le lettere di Vivin C.



12 giugno 2016
Cara suor Carmela, le scrivo perché non so a chi rivolgermi per il mio problema. Le parlo così, col cuore in mano e la mano in testa. Sono una ragazza come tante altre, ma più inquieta, anche se provengo da una famiglia come tutte le altre. Mio padre è impiegato in una grande azienda di distribuzione di tappi e turaccioli, e mia madre è un'artista estemporanea folk, cioè dipinge paesaggi su fogli di sughero. Avrà forse capito che vivo in Sardegna. E proprio questo è il mio dramma. D'inverno non faccio fatica a stare in casa con i miei: mi piace guardare il vento che dalle bocche di Bonifacio spazza via le barche e le fa turbinare in aria come magici mulinelli, per poi lanciare tutto intorno i vari componenti, sia delle barche, sia dell'equipaggio. Mi piace vedere la pioggia che allaga allegramente le strade impervie e coglie all'improvviso le auto di passaggio, facendole sbandare pericolosamente e a volte precipitare in nascosti burroni. Mi piace il silenzio della sera sarda, il rumore del pennello che scorre sul foglio di sughero, lo sfrigolare del porceddu sui fornelli. Ma d'estate... oh, d'estate, suor Carmela mia, tutto cambia. Il mio paese si anima di ragazzi belli e abbronzati, che stanno in spiaggia tutto il giorno e dopo cena vanno in discoteca con i loro scooter. E io? Mio padre la sera non mi fa uscire e mia madre mi ha cucito personalmente il costume con dei fogli di sughero. Intero. Come posso fare? Io vorrei essere una ragazza come tutte le altre, col bikini di cotone e lycra! Chiedo forse troppo, suor Carmela? Sono forse un'ingrata? Una spudorata? Tutte le sere prego il Signore affinché si estingua il sughero dalla Sardegna. E me ne vergogno.

Grazie per questo impagabile servizio d'ascolto.
Vivin C. 76

Suor Car
mela risponde
Cara Vivin C., il sughero è un materiale pregiato, ringrazia per questo dono: vedrai che il tuo costume sarà ammirato da tutta la spiaggia.
P.S. Ma 76 è il tuo anno di nascita? 


26 agosto 2016
Cara suor Carmela, si ricorda di me? Sono la ragazza sarda, la figlia di un impiegato nel settore di tappi e turaccioli e di un'artista della pittura su fogli di sughero. Si ricorda del mio odiato costume di sughero? Volevo dirle che io quest'estate ho seguito il suo consiglio. Ma le cose non sono andate proprio come speravo. Per farla breve, è successo questo: dopo un'ora che ero in ammollo nella limpida acqua del nostro bel mare sardo, la parte inferiore del costume (dalla vita in giù, con rispetto parlando) si era completamente disgregata, mentre nella parte superiore, per un qualche misterioso fenomeno fisico, il sughero si era miracolosamente gonfiato a dismisura, causandomi un imbarazzante effetto boa. Finché sono rimasta perfettamente a galla, baciata sul viso dal nostro caldo sole della Sardegna, nessun problema. Purtroppo però, a causa di un'ondata improvvisa, a un certo punto ho subito un totale ribaltamento a testa in giù, che mi ha fatto ritrovare, ahimé, con la testa sott'acqua e le gambe (ma non solo, con rispetto parlando) al di fuori della cristallina superficie. Che momenti, suor Carmela! Pensavo di morire, non solo dalla vergogna, ma anche dalla prolungata apnea. Sarei voluta sprofondare negli abissi... ma cosa vuole, con tutto quel galleggiante di sughero, era impossibile. Per un triste scherzo del destino, in quel momento la ridente spiaggia (nel senso che tutti ridevano come matti) era densamente popolata da ragazze e ragazzi abbronzati, provenienti da varie parti d'Italia, e addirittura anche dall'estero. Anche il bagnino, quando finalmente mi ha recuperato e riportato alla posizione originaria, rideva di gusto. Mi deve credere, suor Carmela, è stato terribile. Quella stessa sera, coricata sul mio letto, mentre guardavo il soffitto tappezzato di pregiato sughero, ho avuto i soliti cattivi pensieri. Ho desiderato che tutta la Sardegna sprofondasse insieme ai tutti i suoi benedetti alberi di sughero. Capisce, Suor Carmela, in che stato sono? Ora la devo lasciare, perché ha citofonato il mio ragazzo. Gli amici lo chiamano "il tappo". Ah, no, qui il sughero grazie al cielo non c'entra: è alto un metro e trenta!

Aspetto una sua preziosissima e utilissima parola di conforto.
Vivin C. 76 

Suor Carmela risponde
Cara, non mi hai ancora specificato se 76 è il tuo anno di nascita.

mercoledì 1 marzo 2017

IL CERVELLO È MIO E LO GESTISCO IO




Una figura di cacca può cambiarti la vita


Tanti anni fa (tanti, avrò avuto vent'anni o poco più) ero una ragazza molto diversa da come sono ora. Avevo persino una guida spirituale (cioè un sacerdote di riferimento, invece della psicologa). E a questo proposito c'è un episodio apparentemente banale, che ha rappresentato un punto di svolta nella mia vita. 

Quando uscì nelle sale Nove settimane e mezzo, la guida spirituale convinse tutto il suo fan club (compresa me) che fosse un film altamente pericoloso, sconveniente per tutta una serie di motivi che ora nemmeno mi ricordo, e che per questa ragione non andava nemmeno visto.
In quei giorni (citazione evangelica involontaria), mi trovai a casa di un amico del laboratorio teatrale che allora frequentavo, per un lavoro da fare insieme. Ora, com'è come non è, si finì a parlare del famigerato Nove settimane e mezzo, e mentre lui ne parlava (e l'aveva visto), io gli davo contro con veemenza, ripetendo a pappagallo le motivazioni che avevo assunto come mie. «Perché prima di parlare non lo vai a vedere?», mi disse giustamente il mio amico. «Perché non va proprio visto». Punto. Categorica. Convinta.

Bene. Un bel po' di tempo dopo, com'è come non è, non me lo ricordo, passate le polemiche della prima ora, mi capitò un invito a vedere questo benedetto film e, ormai un po' sbiaditi i discorsi sui divieti vari, anche se titubante, ci andai. Beh. Nove settimane e mezzo, una grandissima cazzata, niente di che, niente di pericoloso, nessun minimo motivo di turbamento. Esattamente come diceva il mio amico del laboratorio, ed esattamente il contrario di quello che diceva la guida spirituale. Che poteva avere anche le sue ragioni: ma non erano certamente le mie!

Ecco, non mi ricordo davvero più i termini della questione, ma mi ricordo in modo preciso come mi sono sentita appena uscita dal cinema: un'idiota, una stupida, una povera deficiente. Io non pensavo affatto quello che avevo detto, sostenuto e sottoscritto. Io ero perfettamente in grado di elaborare un giudizio autonomo in base alla mia formazione culturale, alla mia sensibilità, alle mie idee. Non avevo bisogno di fare il ripetitore dei giudizi altrui. Avrei voluto citofonare al mio amico e dirgli: «Oh, cavolo, avevi ragione, sono stata una stupida, vorrei mettere la testa dentro un sacchetto di carta, dovevo vederlo prima di parlare, non era affatto il mio pensiero. Frustami!» Ma nel frattempo lui aveva cambiato casa, e chissà se si ricorda ancora di me, la ragazza decerebrata.

Questa figura di cacca è stata fondamentale. Da allora la mia linea esistenziale è: mai più prestare la voce ai pensieri altrui, che siano guide spirituali, leader politici, amici intelligenti, professori, gruppi o idoli di varia natura. Mai. Essere d'accordo con, non essere d'accordo con, questo sì... ma mai rinunciare all'autonomia del pensiero. Mai abdicare al cervello. Sempre verificare, controllare, informarsi di persona. Ci sono tante altre cose per cui sentirsi stupidi. Per tutto il resto... c'è la psicologa.



venerdì 24 febbraio 2017

TAPPATI LE ORECCHIE ZOLTAN

Sono qui da due ore, o forse più, con la cuffia pressata sulle orecchie che mi stanno ribollendo. Sposto tracce e organizzo tracklist per l'ennesima compilation. Ormai si fanno poche nuove registrazioni, si va avanti a compilation, c'è la crisi. Il riciclo intelligente, per darci un tono lo chiamiamo così.
Okay, non divaghiamo.
Sono qui con la cuffia, piazzata davanti al computer. Un po' alienata, forse, perché è un tipo di repertorio che ti spappola i neuroni, ti entra in circolo e ti si ripropone nel cervello quando meno te l'aspetti, tipo la notte quando ti metti a letto.

A un certo punto skype mi avvisa che è partita una chat. Cerco subito di capire chi tra i miei contatti mi sta scrivendo. È un certo Zoltan. Chi? Ma io non conosco questo Zoltan. Qualcuno dei miei contatti s'è cambiato il nome skype?
«Toc toc. Buongiorno, possiamo noi parlare due minuti?».

Ah, ok, capito. È Yoda di Guerre Stellari.
«Con chi ho il piacere di chattare?», scrivo velocemente, con quella punta di acidità femminile che mi viene su quando sento che sto per essere presa in giro.
«Molti anni fa ci siamo noi conosciuti. Tu eri giovane studentessa e io... una memoria ero già. Un sapere tramandato. Un sistema pedagogico musicale».
Alt. Un sistema pedagogico musicale?
«Zoltan come?», chiedo ancora.
«Zoltan Kodàly».
 

Andiamo bene. Sono lucida? Sono stanca? Una volta i musicisti morti ti si manifestavano in sogno. Oppure durante le sedute spiritiche. Adesso comunicano via chat, non c'è più mistero, non c'è più quell'esoterismo inquietante di una volta.
Prendo un minuto per elaborare una risposta all'altezza della mia sagacia e del mio livello culturale: «Ha un numero che possa giocarmi al lotto?».

Mi sa che l'ho spiazzato, non scrive più. Avrà capito la fine ironia? E adesso?
Nulla.
Rimetto la cuffia, pronta a riprendere il mio lavoro di compilatrice di compilation.
«Sembra che tutto tu abbia dimenticato». Dopo cinque minuti mi arriva questa chat, sempre da lui. 

No, non ho dimenticato. Mi ricordo ancora le lezioni sul sistema elaborato da Kodàly per l'educazione musicale dei bambini. Un metodo che non è un metodo per educare semplicemente alla musica, ma con la musica. Induttivo e non deduttivo. Con la musica che parla al cuore e diventa un elemento fondamentale per la formazione globale. Con un repertorio che ha le sue radici nella musica popolare.

«Quando si inizia a insegnare musica ai bambini, a che età, a che età?», continua.
«Nove mesi prima di nascere», rispondo nel tempo di un nanosecondo. Meno male, questa la so!
Insomma, Zoltan Kodàly è venuto a sgridarmi perché sa benissimo che sto compilando compilation che non c'entrano niente con tutto questo. Sta' a vedere che si è rivoltato nella tomba per colpa mia. «La musica popolare non si vende, amico mio. E non mi faccia la predica sul capitalismo e sulla decadenza culturale, la penso come lei».

È palese: mi sento in colpa. Perché è vero che fa parte del mio lavoro occuparmi di musica per bambini per una casa discografica e che devo occuparmi di prodotti che possibilmente vendano. Ma anch'io scrivo cose per bambini e lui forse lo sa. Forse lassù se ne parla.
«Invece di ispirarti ai miei bicinia hungarica ti ispiri ai puffi di Cristina D'Avena».
Lo sa. E lassù si parla anche di Cristina D'Avena.
«Magari – ribatto – sai i soldi che facevo».
«Sì però...» e manda l'emoticon con la faccetta terrorizzata.
«Comunque non m'ispiro affatto a Cristina D'Avena».

Toc toc. Ora non è una chat: qualcuno bussa alla porta del mio ufficio.
«Avanti!».
La porta si apre di scatto. Si apre e compare una donna bassina: Cristina D'Avena.
È tutta strizzata in un top di pelle nero con una gonna svasata di tulle nero e raso. Si siede davanti a me e mi guarda: «Non ho capito perché questo tono da snob. Sai quanti dischi ho venduto io, bella? E sai che ancora mi chiamano ai concerti? E ho un sacco di fan? E tu?».
No, io no, signora Cristina D'Avena, non mi conosce nessuno. Credo forse di avere un certo numero di ammiratrici tra le maestre d'asilo.
«Ah ah ah ah ah» ride sguaiatamente battendo i pugni sulla scrivania.
«Non intendevo sminuirla dicendo che non m'ispiro a lei. È che m'ispiro a una musica più commerciale degli ultimi tempi».
«Tipo?» fa lei con aria di sfida.
«Tipo... tipo... – oh, non mi viene in mente niente – tipo i Righeira». Ma ho buttato una cosa lì, che non c'entra niente.
«Ah ah ah, alla faccia degli ultimi tempi!». Lei continua a sbeffeggiarmi.

Toc toc. Chi è che bussa, adesso? «Avanti!».
È Johnson Righeira. Entra con i suoi occhiali da sole e va subito a sedersi davanti a Cristina D'Avena. Si rivolge direttamente a lei, praticamente ignorandomi.
«Scusa Cris, qual è il problema?».
«Nessun problema John», dice lei continuando a ridere.
Guardo l'orario sul computer.
«Signori miei – dico – è stato veramente un piacere conoscervi, ma tra pochi minuti scatta la mia pausa pranzo e non vorrei rimanere bloccata qui».

Nel frattempo sul display mi compare di nuovo una chat di Zoltan Kodàly: «Se ancora tra voi io mi trovo, in questo mondo senza pace per la mia anima, è perché alla mia domanda nessuno risposto ha, finora: quale musica migliore per i bambini è?».
Dico io, ma è una domanda da fare proprio a ridosso della mia pausa pranzo?

Toc toc. Ancora? Chi è adesso? «Avanti!», grido. La porta si apre lentamente, molto lentamente. Si affaccia un uomo e, che mi venga un colpo: è Franco Battiato. «Buongiorno maestro, qual buon vento? A cosa dobbiamo questa sua gradita visita?» dico, non sapendo cos'altro dire. Lui, silenzio. Abbassa la testa, un po' infastidito. Poi la alza e guarda verso il soffitto: «Perché sei un essere speciale... ed io...». Si ferma.
«Avrò cura di te!» mi affretto ad aggiungere.
«La sapevo anch'io, figurati», fa la Cris. Il maestro gira i tacchi e se ne va, sbattendo la porta dietro di sé.
«Comunque stava parlando per me», riprende Cristina D'Avena.
«Sì, vabè», ribatte Johnson Righeira.

I minuti passano inesorabili e io comincio a perdere la pazienza. Leggo a voce alta la domanda di Zoltan: «Quale musica migliore per i bambini è?» I miei due ospiti inattesi si guardano tra loro. Poi mi guardano. Io guardo il computer, poi Cristina e poi Johnson. Poi guardo tutti e due. E loro mi guardano ancora.
«Secondo me, è la musica che loro amano, quella che a loro piace». Mi è uscita così, non so nemmeno io da quale angolo del cervello sia partita.
Cristina D'Avena dice: «Ok». Poi si alza e se ne va, seguita da Johnson Righeira.
Guardo il computer: «Ok» scrive Zoltan, e la chat si chiude.
È esattamente l'una, in tempo per la mia pausa pranzo.

Ok, fino alle due non ci sono per nessuno.

giovedì 23 febbraio 2017

PEPPINA LA LAMPADINA


C'era una volta una lampadina da 40 watt. Si chiamava Peppina ed era attaccata al soffitto nel centro di una cantina. Da tanti anni svolgeva il suo lavoro con serietà e competenza, illuminando, quelle poche volte in cui veniva accesa, l'angusto locale. Era lì da sempre, da quando era uscita un giorno dal negozio di ferramenta, dentro la grande borsa a tracolla di una strana ragazza magra, con i capelli lunghi e lisci.

Peppina non conosceva il mondo di fuori, se non attraverso i racconti degli oggetti che ogni tanto finivano lagg.
Ramona la poltrona, per esempio, sospirava ogni mezz'ora, rievocando i bei momenti in cui un essere chiamato nonno stava seduto su di lei e leggeva delle cose molto gradevoli chiamate favole a due piccoli esseri rumorosi chiamati bambini.
Ernesto il cesto di vimini raccontava che Federica, la ragazza magra coi capelli lunghi e lisci, una volta gli aveva messo un cuscinetto imbottito all'interno e per un bel po' di tempo era diventato la cuccia di Zorro, il gatto nero. «Ah! – sospirava Ernesto – uno dei periodi più belli della mia vita».

Tutti avevano avuto una vita avventurosa nel mondo di fuori, tranne Peppina: lei aveva conosciuto solo la cantina. Però non si lamentava: negli anni aveva visto anche tanti oggetti andare via da lì, ammassati dentro anonimi scatoloni di cartone, senza una spiegazione, disorientati, spaventati. Nessuno sapeva che fine avrebbero fatto, ma si vociferava che quella, per loro, sarebbe stata proprio... la fine!

Un giorno di primavera la porta della cantina si aprì: era Federica, la ragazza magra coi capelli lunghi e lisci. Contrariamente al solito, invece di pigiare l'interruttore della luce, accese una torcia. Salì sulla scala, si avvicinò a Peppina e la svitò. «Ti sostituisco con una lampadina a basso consumo, amica mia». “Grazie per avermelo detto – pensò Peppina – ma ora cosa farò? Finirò dentro un anonimo scatolone? Che ne sarà di me?”.
Triste e impaurita, forse ormai rassegnata a chissà quale brutta fine, si ritrovò, come tanto tempo prima, dentro la borsa a tracolla della ragazza, al buio, in mezzo a un pacchetto di fazzoletti di carta, una forbice, un portafogli, una borsetta per il trucco, un rotolino di nastro, un golfino piegato, un astuccio, un'agenda e un telefonino.

Presto Peppina finì su un tavolo di legno, in una stanza piena di sole. Il sole: ne aveva sentito parlare. Era davvero la lampada più potente, più grande, più luminosa del mondo. Che luce! E che piacevole calore!
«Peppina! Anche tu qui! Che bella sorpresa!» era Ernesto, il cesto. Sembrava diverso da solito, più bello: pieno di nastri colorati, pezzi di stoffa, scatole di perline, boccette di colori.
A un certo punto Federica afferrò delicatamente la lampadina per la base: «Amica mia, ora ti cambierò completamente il look, spero ti piaccia». A Peppina intanto piaceva questo fatto che la ragazza le diceva sempre prima cosa stava per fare. In quanto a questo nuk, buk, luk... boh, chissà cosa voleva dire. Poi, «ihihih, uhuhuh, ahahah», fu tutto un ridere con quei pennelli che le facevano il solletico avanti e indietro per la liscia superficie. Federica la guardava e sorrideva soddisfatta: «Davvero un bel lavoro, sono stata brava, sì sì».
«Ho sentito dire che si chiama riciclo creativo», sussurrò a un certo punto Ernesto.
Un improvviso colpo di vento fece aprire il vetro della finestra e per un attimo Peppina vide la sua immagine riflessa: sembrava una signorina come Federica, ma con i capelli corti e un bel ciuffo sulla fronte, il rossetto sulla bocca a forma di cuore e un piccolo foulard intorno al collo.
Insomma, la ragazza si divertiva a dipingere le faccette sulle lampadine usate. Era brava, ne aveva collezionate un bel po'.
Così Peppina venne collocata nella camera di Federica, su un comò, davanti a una lampadina tonda biondina e vicino a un bel tipo coi baffetti.
«Piacere, Gino lampadino».
«Piacere, Peppina».
Lui si accese subito di entusiasmo: «Sei bellissima».

Questa è la storia di una lampadina da 40 watt di nome Peppina, che per tanti anni era stata appesa al soffitto di una cantina. E quando sembrò che tutto per lei stesse per finire, Peppina non si spense, ma si riempì d'amore e divenne più bella e più splendente di prima.


 

mercoledì 22 febbraio 2017

CRONOMACHIA. Lettera aperta a Franco Battiato

Lo ammetto: faccio parte di quel 99% di donne convinte che “La cura” di Battiato sia stata scritta espressamente per loro.
Il testo effettivamente parla molto chiaro:
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, ma soprattutto dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Sono proprio io. Per mia natura attiro fallimenti, e non mancano certo dolori, sbalzi d’umore e ossessioni delle mie manie.
Franco, forse ci siamo conosciuti in un’altra vita? Non mi pare che ci abbiano mai presentati. Eppure mi dipingi nei minimi particolari, cogli le sfumature delle mie recondite nevrosi, esplori le offese della mia psiche. Magari siamo entrati in contatto telepaticamente, in forma onirica? Chissà.

Quello che mi commuove di più è il tuo dichiarato intento di superare le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farmi invecchiare. Grazie. Perché tu, caro Franco, mi conosci così bene da sapere che se c’è una cosa che veramente trovo insopportabile, che proprio non riesco a mandare giù, è invecchiare. Inevitabile, d’accordo. Ma insopportabile.
Quando ho compiuto vent’anni mi sono messa a piangere. Al trentesimo compleanno ho cominciato a pensare che la decadenza del corpo sarebbe stata inarrestabile, addio giovinezza e file di uomini davanti il portone (immagine del tutto virtuale). Superati i quaranta, è iniziato uno stato di lotta continua e disperata contro qualsiasi segnale di tipo fisico, fisiologico e mentale dell’invecchiamento, una cronomachia totale e disordinata. Superati i cinquanta... beato te, chi li festeggia più i compleanni?

Se tu conosci davvero questa formula per bloccare tutto, per favore, sbrigati a metterla in pratica, perché la mia estetista fa quello che può, e anche l’osteopata, il kinesiologo, l’omeopata, il ginecologo, il naturopata, l’istruttrice di yoga. Un team di professionisti. Ma per gli interventi risolutivi siamo lontani e il tempo passa senza chiedere il permesso. E non è roba che risolvi col chirurgo plastico, voglio dire… tanto, stai lì a svenarti di soldi e a soffrire sotto i ferri e poi tutti a dirti dietro che pari un canotto.

Ti prego di non vagare troppo per i campi del Tennesse invece di concentrarti sui miei problemi.
Ti salverò da ogni malinconia perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te. 
Oh, Franco, non facciamo scherzi: io ci conto. In questo momento sono confusa e infelice, e scusami se in parte cito anche Carmen.

domenica 19 febbraio 2017

MALEDETTA MEMORIA CHE VA E VIENE

Avvitò la caffettiera, accese il fornello, mise la caffettiera sul fuoco.
La sera prima aveva mandato giù un flacone e mezzo di valium. Voleva morire, voleva farla finita. In un modo o nell’altro. Ma aveva mangiato la peperonata, e – diamine, avrebbe dovuto pensarci! - i peperoni lui non li digeriva proprio. Ogni volta se lo dimenticava. Maledetta memoria che va e viene.

Aveva vomitato tutto, compreso il valium appena ingurgitato.
Tentativo fallito, quindi. Ma non si dava per vinto, no. Ci avrebbe riprovato.
Il caffè fece appena in tempo a venire su, che la fiamma si spense all’improvviso. Maledetto vento! L’imposta sbatté violentemente: soffiava forte, quella mattina, anche se tutto sommato era una bella giornata di sole. Chiuse la finestra della cucina e in casa tornò la calma.

Versò il caffè nella tazzina, andò in camera da letto trascinando le ciabatte, sorseggiò il caffè lentamente, con gli occhi chiusi. Poi si alzò e andò nel ripostiglio a cercare una corda.
Prese la più grossa che c’era. Se la girò intorno al collo. Ci mise un po’ a fare un nodo decente: mica era un pescatore, lui. Dall’appartamento dei vicini si sentivano le voci allegre dei bambini che scherzavano con il loro cane.

La ragazza del piano di sopra invece aveva già iniziato gli esercizi di pianoforte. Un notturno di Chopin. Alle nove di domenica mattina: ma si può? E comunque tutti in quel palazzo sembravano felici, dannatamente felici. Famiglie, coppie, amici… animali… Lui no. Lui era solo. Maledettamente solo.

Cercò un appiglio per la corda. Niente, in quella casa non c’era neanche un tubo da qualche parte adatto per impiccarsi. O forse non voleva trovarlo. Ma sì, forse aveva ragione il suo analista, non voleva uccidersi veramente. Il suo era solo un gioco che si ripeteva ogni stramaledetta domenica.
In uno scatto d’orgoglio pensò di tagliarsi le vene. In bagno cercò invano una lametta pulita: solo rasoi usa e getta, troppo complicato. Eppure gli sembrava di averle comprate, le lamette. Dove diavolo le aveva messe? Maledetta memoria che va e viene!

Va bene, va bene, d’accordo, non era giornata… e poi ormai stava per passare da lui la signora delle pulizie. Non voleva incontrarla, neanche scambiare una parola con lei, parlava troppo, quella donna, gli faceva venire il nervoso quando cominciava a raccontare della sua famiglia e dei suoi tre bambini.
Cominciava a sentirsi strano, gli girava un po’ la testa, aveva bisogno di prendere aria. Si vestì in fretta, senza lavarsi. Indossò il cappotto pesante, il cappello beige, la sciarpa scozzese. Chiuse la porta di casa, prese l’ascensore e uscì dal palazzo. Da quello stramaledetto palazzo di stramaledetta gente felice.
 
Sì, era proprio una bella giornata di sole e di vento. Attraversò la strada e si diresse verso i giardinetti. Del resto, era lì che dovevano andare a passare la mattinata gli anziani, no? Comprò il giornale, poi voltò l’angolo e individuò una panchina libera. Si sedette, inforcò gli occhiali. Cominciò a leggere la prima pagina.

Improvvisamente un boato assordante squarciò l’aria. Tremò la terra. Tutti lì intorno gridarono e si buttarono giù storditi, spaventati.
Alzò gli occhi verso il punto da cui sembrava fosse arrivato quel tuono terrificante. Una nuvola di fumo grigio e denso si delineò all’orizzonte, sporcando completamente il cielo prima così terso di quella domenica mattina di vento e di sole.
Non era lontano, era successo qualcosa lì vicino, un’esplosione a pochi isolati di distanza. Più o meno in direzione di casa sua.
Si tolse gli occhiali. Cercò di concentrarsi con calma.
Il vento trasportava odore di bruciato e di polvere. Intanto per le strade cominciava a piovere il pietoso e frenetico circo delle sirene di ambulanze, macchine della polizia, vigili del fuoco.
Si rimise gli occhiali. Aprì il giornale sulla pagina centrale. Lo richiuse. Cercò ancora di fare mente locale, tentando di ripercorrere attentamente tutte sue le azioni precedenti. Pensò: ma… l’avrò chiuso il gas, prima di uscire?
Maledetta memoria che va e viene.

domenica 8 gennaio 2017

LADRI DI ZERBINI

«Qualche giorno fa (ero pure in casa), mi hanno zottato lo zerbino davanti la porta. E quando me ne sono accorta, ci sono rimasta malissimo.
Non perché il tappetino fosse prezioso (era solo carino, con sagome nere di gatti, euro 23,00), ma perché mi piaceva e ora sinceramente non ho voglia di comprarmene un altro diverso».

Questo lo scrivevo un mese fa. Ora lo zerbino coraggiosamente l'ho ricomprato, tale e quale, e con una certa esitazione l'ho rimesso al suo posto.
A parte controllare in continuazione dallo spioncino della porta appena sento un rumore sospetto, come nemmeno le più esperte vecchie impiccione dei condomini sanno fare (e in questo caso mi sarebbero tornate tanto utili), nel frattempo ho elaborato dei pensieri: 
a) Il ladro secondo me è una ladra, ti pare che un maschio ladro si fa tentare da uno zerbino coi gatti?
b) La ladra è una che frequenta regolarmente il palazzo, ma forse non ci abita, dato che non può usare qui il mio zerbino.
c) Hanno rubato uno zerbino anche alla signora del quarto piano, la ladra ha più di una casa? È una collezionista di zerbini? 
d) Io sto al piano terra e vabè, il mio zerbino lo vedono tutti, ma al quarto piano? Vuol dire che scendi almeno dal quinto.
e) I piani sono sette e al quinto c'è l'unico appartamento adibito non ad abitazione privata, ma a centro servizi, con un certo via vai di persone.

Di recente ho trovato anche un mio plico postale aperto, con il contenuto privato di cellofan (era una rivista con CD). Potrebbe essere stata la stessa persona? Però evidentemente le attività e le canzoncine per bambini non le interessano, me l'ha lasciata. Deduco che non ha figli e non è maestra.

Bene, questi i dati di fatto. Ho avuto persino la tentazione di comprare una telecamera di sicurezza, perché io per queste cose ci vado in puzza, e manco poco. Ma voglio essere ottimista, va'. Vediamo come si comporta il genere urbano e la sospetta signora/signorina dalle mani lunghe. O magari invece è un uomo?

«Sono proprio le soluzioni più semplici quelle che in genere vengono trascurate»: hai ragione Sherlock mio. Terrò a mente.