Una sola è la strada per la felicità, dice il saggio.
Oddio, forse dovevo svoltare prima.

sabato 20 dicembre 2014

TOMBOLA E FAGIOLI

Natale è ancora una festa speciale perché è una festa piena di ricordi.
Infatti i Natali di un bel po' di anni fa me li ricordo ancora piuttosto bene.
Le feste si passavano tassativamente in famiglia, e in famiglia prima eravamo sempre in tanti: tanti zii, tanti cugini, e tutti per le feste stavamo là, nessuno in quelle occasioni aveva impegni più importanti.
La famiglia da parte di mia madre è proprio romana romana: nonno Mario (buonanima) era romano de Roma, con qualche svirgolamento verso Tivoli e nonna Elena (buonanima) romana di sette generazioni. Quando mia madre e i miei zii erano piccoli, abitavano a San Lorenzo, e quindi s'erano beccati il bombardamento nella seconda guerra mondiale (cosa che veniva rievocata puntualmente). Poi s'erano trasferiti a Centocelle, a via Tor de Schiavi, e sono rimasti lì in quella casa fino all'ultimo. Ed è lì che sono stati consumati i nostri pranzi natalizi leggendari.

I pranzi di nonna Elena non te li puoi scordare. Ti ritornano su pure in sogno a distanza di decenni. Metteva le spianatore su tutte le superfici piane di casa e sopra ci lasciava riposare chili e chili di pasta fatta in casa. Cucinava quantità industriali di fettuccine, lasagne, cannelloni… Poi abbacchio con le patate e altra roba che doveva rispettare una specifica condizione per entrare nel menù: doveva essere grassa. Cucinava un po' sempre le stesse cose... il baccalà col sugo e lo zibibbo (a Roma l'uvetta si chiama zibibbo), i carciofi con la mentuccia, i broccoli fritti, i carciofi fritti... friggeva tutto, pure la ricotta. I fritti erano soprattutto per la cena della vigilia, per stare leggeri, insieme a due spaghetti con le vongole (due per modo di dire). Alla fine, insieme alla collezione di panettoni pandori e torroni, arrivava a tavola anche il castagnaccio, una specie di pizza dolce marroncina che si mangiava con la ricotta sopra. Ah, e il giorno dopo, a Santo Stefano, per non sovraccaricare lo stomaco già tendente al coma epatico: cappelletti in brodo. E tutto il resto. Ma lasciamo perdere va', che mi si alza il colesterolo solo se ci ripenso.
Negli ultimi anni io e mia cugina avevamo cominciato ad avanzare strane necessità: «Nonna, io sono diventata vegetariana». «A no', io sto a dieta». «Sète giovani, ma sète fraciche», ci diceva lei. «Ve faccio un po' de purè coi fagiolini». Il purè di nonna Elena, più parmigiano e olio che patate, aveva le stessa quantità di calorie di una torta panna e cioccolata, e pure i fagiolini non scherzavano. Tutto, nelle mani di nonna, diventava magicamente grasso.

Eravamo sempre divisi in due tavoli: il tavolo dei grandi e quello dei bambini. Io e mia cugina Isabella siamo rimaste al tavolo dei bambini fino a dopo i trent'anni, intanto che ai cugini si aggiungevano i figli dei cugini.

Dopo il pranzo di Natale era obbligatoria la tombola. Adesso si chiama bingo, ma per noi era e rimarrà per sempre tombola. Non mi venite a dire che la tombola è un gioco divertente. Eppure da bambina io mi ci divertivo, perché i miei zii conoscevano tutti i numeri della smorfia. Poi perché qualcuno tra un numero e l'altro qualche cazzata per ridere la sparava sempre. E poi perché alla fine facevano il tombolino per i bambini e qualcosa vincevi per forza. Per tanti anni le cartelle erano state quelle lisce, di cartoncino, e i numeri si coprivano coi fagioli e si perdeva più tempo a chiedere: Mi ripeti i numeri? perché i fagioli rotolavano via come niente. Poi a un certo punto c'è stato un salto tecnologico, l'avvento delle cartelle di plastica con le finestrelle apri e chiudi.
Dopo la tombola, i grandi si scatenavano a sette e mezzo e mercante in fiera. La peggio era sempre mia nonna. Se vincevi, ti faceva le corna sulle carte e non vincevi più.

Oltre a mangiare e giocare non c'era sentore di una qualche spiritualità. Ah, beh, giusto un anno mi ricordo che il nostro Natale ha sfiorato momenti significativi di cultura musicale. A festeggiare con noi c'erano anche i genitori austriaci di Roswitha (Roswitha è la moglie di uno dei miei cugini. Un nome impronunciabile per nonna Elena, una volta ho sentito che l'ha chiamata Rosbeef, il più delle volte Rosita, come la figlia di Celentano). Quella volta è andata così: a un certo punto del pomeriggio, Roswitha, sollecitata dai genitori, tira fuori un mazzetto di spartiti e ce li consegna spiegando che da loro, in famiglia, è tradizione eseguire insieme i più famosi canti di Natale. E c'invita a cantare tutti insieme. E mentre noi stiamo sotto choc ancora coi fogli in mano, loro, madre padre figlia, nei ruoli rispettivamente di soprano contralto e tenore, cominciano a intonare Stille nacht in tedesco e rigorosamente a tre voci. Stille nacht... heilige nacht... Noi siamo senza parole. Solo un pensiero: tacci vostri, e noi mo' che famo? Finito il pezzo, applauso e, a seguire, lungo momento d'imbarazzo. Chi fischia, chi si taglia una fetta di torrone, chi va al bagno. Ma Frau Christine, la regina madre, non si lascia ingannare, ci guarda e Roswitha ci dice che ora tocca a noi e ci intima chiaramente di cantare qualcosa. Roswitha è austriaca, detesta fare brutta figura. Allora facciamo un rapido consulto, escludendo subito nonna Elena e nonno Mario che stanno ancora sotto choc. Allora: qui non c'è nessuno che va in chiesa, manco uno straccio di Venite fedeli si tira fuori. Io dico: ma scusate, Tu scendi dalle stelle? Dovrebbero saperla tutti Tu scendi dalle stelle! Niente, lo sanno poco e male. Infine, per non deludere gli ospiti, arriva l'unica proposta fattibile. Un classico. Uno due tre, e attacchiamo: Fatece largo che passamo noi, sti giovanotti de sta Roma bella... Roswitha nasconde l'imbarazzo e cerca di tradurre il testo ai genitori, molto probabilmente con qualche modifica.

Ah, ma abbiamo avuto anche altri Natali con ospiti internazionali. Per esempio il primo anno con Marghany, un amico sudanese dei miei cugini.
Non mi ricordo chi di noi gli chiese: «A Marghany, che mangiate voi nel vostro paese quando è festa?» E lui: «Nel nostro paese quando si mangia è festa. Tombola!»
Come tombola? A Marghany, ma che ce sei venuto dall'Africa a fregà i sordi a noi?
E nonna rideva con quella risatina che aveva solo lei.

Chissà se adesso mi guarda da lassù. Se mi guarda, sicuramente penserà: «A bella de nonna, ma come fai a magnatte er tofu?»
Lo so, nonna, c'hai ragione, se c'eri tu me lo facevi diventà 'na bomba calorica con due semplici mosse. Ma tu non puoi capì, adesso è tutto diverso. Tu, nonna, fai parte di un'altra storia. La storia dei Natali di tanti anni fa, di quelle feste molto romane e molto caloriche a casa tua, che passavamo tutti insieme, tutti stretti intorno al tavolo, coi fagioli sulla cartella della tombola che rotolavano via. Che rotolavano via, proprio come gli anni che ci separano dai nostri ricordi. E ammazza quanti anni sono.





sabato 13 dicembre 2014

Racconti fatali: STORIA DI BICE, FATA INFELICE

Ero una figlia d'arte. Mio padre era mago alla corte di Re Artù, mia madre una famosa fata delle nevi sui monti della Svizzera.

Alla tenera età di sei secoli fui mandata in un rinomato collegio per fate, dove avrei ricevuto un'educazione degna del mio rango.
Ma non ero felice, lì. Essere buona, gentile, educata, altruista, sorridente, non erano cose che facevano per me.

Durante una lezione di taglio e cucito trasformai il bidello in formichiere. Si rivelò anche un ottimo aspirapolvere.
Feci ingurgitare un potente filtro d'amore alla mia compagna Dolcilia, che s'innamorò perdutamente di una lampada. Durante una notte d'amore morì fulminata.

Mettevo letteralmente sotto i piedi il mio maestro, il mago Zerbino, il quale convocò i miei genitori.
Così mi portarono da un noto stregone, Sigmund Freddy, che mi tenne in analisi per quasi due secoli. La diagnosi fu sconvolgente: io ero una strega.

Come era potuto accadere? Una mutazione genetica? O forse un'avventura della fata delle nevi?
Fui internata in un istituto di rieducazione in Transilvania per essere recuperata e tornare a vivere in Svizzera con mia madre che, nel frattempo, si era risposata con un mago della finanza.

Le cose, però, andarono diversamente. Con l'aiuto del dottor Jeckyll – una persona ambigua, ma di buon cuore – riuscii a scappare insieme a Franky, un altro paziente dell'istituto: un tipo geniale, elettrizzante, con un fisico da fusto.

Vagammo per alcuni anni su una scopa rubata, passando per la Foresta Nera, il Bosco degli Gnomi e New York di notte.

Un giorno, però, Franky ebbe un malore a causa di un'anemia latente.
Cadde dalla scopa e si schiantò al suolo. Io, che non avevo la patente, atterrai sull'Himalaya e fui soccorsa da uno Yeti, del quale mi innamorai.

Fu una tenera storia d'amore. Lui era dolce, comprensivo e molto peloso. Purtroppo durò poco. Due settimane dopo il nostro incontro, mentre cantavo Singing in the rain sulla neve, fui calpestata da un mammut che passava lì per caso.





martedì 2 dicembre 2014

TERMINI INUSUALI

Noiosità: ecco, non ero sicura che questa parola esistesse.
Invece è presente sul dizionario e significa:

1 Carattere di chi, di ciò che è noioso: l'esasperante n. di una giornata piovosa

2 Ciò che è motivo di fastidio: sono seccato per tutte queste n.

Esattamente quello che volevo esprimere.
Che bella parola noiosità, se non ci fosse bisognerebbe inventarla.



domenica 30 novembre 2014

Racconti fatali: STORIA DI BABY GINGER

Non ero ancora nata, ma già sapevo che avrei fatto la ballerina.

Al terzo mese di gestazione provavo i primi esercizi e mia madre andava dicendo a tutti che suo figlio sarebbe stato un calciatore.

Al quinto mese eseguii "Lo schiaccianoci". Fu un trionfo: alla fine suonarono le tube e un folto gruppo di globuli bianchi si coagulò intorno a me.

Al settimo mese passai al tip tap. Mia madre preferiva il classico, ma io, testarda, volli provare.
Anche se mi esercitai molto, i risultati non furono buoni: le scarpe non facevano rumore per via del liquido amniotico, che ammortizzava la risonanza.

Ripresi il classico fino all'ottavo mese. Affrontai una tournée e riscossi un discreto successo di anticorpi.

Non ero ancora soddisfatta.
Per tutto il nono mese provai lo spettacolo del debutto all'estero.
Quando mia madre partorì, uscii danzando "la morte del cigno". Lo ricordo come se fosse ieri: indossavo un tutù di tulle rosa e un paio di scarpette a punta argentate.
Tutti in sala parto erano commossi. L'ostetrica pianse per molte ore di seguito e morì disidratata.

Passai qualche giorno in incubatrice, dove conobbi Fred, nato settimino. Ci innamorammo subito, anche se lui era più giovane di me, e scoprimmo di avere in comune la passione per la danza.

Preparammo un passo a due e provocammo il delirio nel nido. Decine di neonati tentarono di uscire dalle culle per venire a stringerci la mano, ma la ressa provocò incidenti. Fu la strage.
Un'infermiera venne a separarci. Io ero disperata: piangevo e mi dimenavo mentre portavano via il mio Fred.

Passarono i mesi. Il giorno del mio compleanno, mentre ballavo una tarantella napoletana davanti alla torta, incontrai Pedro Tacco de Oro, un ballerino spagnolo di due anni e mezzo. Ci fidanzammo: era la prima volta che mi mettevo con uno maturo.

Organizzammo insieme una serie fortunata di spettacoli presso numerosi asili e scuole elementari, dove ballavamo il tango.
Fu proprio durante una di queste esibizioni che rividi lui, Fred.
Era seduto vicino a una biondina che faceva la capoclasse.
Io trasalii: il mio amore per lui non si era mai spento.

Lasciai il Tacco de Oro e tornai a danzare con Fred. Avevamo ormai tre anni.
Un giorno pensammo di allestire un balletto acquatico nella vasca del convento delle suore.
Ma... maledizione, non sapevamo ancora nuotare. E affogammo.





Racconti fatali: STORIA DI ARTURO, IL PIDOCCHIO CHE NON SAPEVA AMARE

Tutti i miei compagni lo sapevano: cosa potevo farci?
Sin da quando ero lendine manifestavo un certo disinteresse verso il gentil sesso.
Questo disinteresse si rivelò una vera e propria repulsione quando fui pidocchio adolescente.
Gli altri miei amici frequentavano un casinò sulla testa di un operaio del sud. L'arredamento era molto bello: il colore base era il nero, e la moquette morbidissima.
Ma niente mi stimolava. Me ne stavo solo soletto, dentro un ricciolo, a scrivere poesie.

Quando divenni più grande, la mia insana indolenza si accentuò.
«Un pidocchio come te è solo un parassita per la nostra società» diceva sempre mio padre.
Molte pidocchie, prezzolate dal mio preoccupato genitore, cercarono di tentarmi nella sensualità. Una ninfomane provò a ballare nuda davanti a me la danza del ventre, mentre eravamo in vacanza sulla testa di un bagnino di Rimini, che è il massimo della libidine. Niente, non succedeva niente.

Provai inutilmente a distrarmi con lo sport e per un po' praticai il surf su una scaglia di forfora.
Decisi di andare da uno psicologo, che mi consigliò un periodo di ascesi sul codino di un arancione.
Passai dei giorni bellissimi in contemplazione.

Al mio ritorno nel clan conobbi Rosina, una pidocchia perbene, fragile e sensibile. Il nostro fu un amore platonico.
Presto la lasciai, per non farle del male: lei aveva davanti a sé tutta la vita per prolificare.

Rosina la prese molto male. Si uccise gettandosi dalla testa di un giocatore di basket.

Stetti malissimo, e inoltre la comunità mi emarginò.
Vagai per molti giorni da una testa all'altra, senza meta, senza scopo.
Decisi di farla finita. Entrai in una testa di sterminio, volontariamente.
Fu questione di pochi minuti. Dopo lo shampoo antipediculosi morii e il mio corpo senza vita cadde giù per lo scarico del lavandino.
Spero solo che alla prossima reincarnazione mi vada meglio.





venerdì 28 novembre 2014

Racconti fatali: DAISY, LA BELLA MARGHERITA

Daisy si svegliò una bella mattina d'aprile nel giardino della scuola.
Aprì lentamente i petali bianchi e sentì il piacevole calore del sole carezzarle il capolino giallo.

Le api cominciarono a ronzarle intorno. «Che bella margherita!», dicevano.
Le allegre farfalle si rincorrevano festosamente sussurrando alla brezza primaverile: «Che bella margherita!»
«Grazie, grazie a voi tutti». Daisy era felice.

Anche i fiori vicini notarono la sua bellezza e si prodigarono in complimenti.
Le formiche indaffarate tra i fili d'erba furono altrettanto colpite e si strinsero intorno a Daisy cantando: «Che bella margherita, che bella margherita!»
«Sono proprio un fiore fortunato: sono contenta di essere nata». Così, cullata dal venticello della sera, si addormentò.

Il mattino dopo si schiuse per accogliere di nuovo tra i suoi petali i benefici raggi del sole.
«Buongiorno, amico sole. Buongiorno a voi, fratelli fiorellini. Buongiorno Primavera. Buongiorno alberi, fili d'erba, formiche, api. E buongiorno a te, bambino della scuola, che ti stai avvicinando a me».
«Che bella margherita!», esclamò il bambino, e la sradicò dal terreno per portarla in regalo alla maestra.

Così finì la breve vita di Daisy. Era proprio una bella margherita.





giovedì 27 novembre 2014

Racconti fatali: LA FARFALLA COSTANTE


Ero solo una piccola larva, e già la mia timidezza mi rendeva difficile ogni rapporto sociale.
Le formiche mi prendevano i giro e le rane mi facevano i gavettoni.
Ma io mi facevo forza, e andavo avanti.

Un giorno, mentre passeggiavo su una foglia di gelso, urtai involontariamente un baco da seta. Io gli chiesi umilmente scusa. Nonostante ciò, lui mi ricoprì tutta della sua bava appiccicosa.
Io mi feci forza, e andai avanti.

Neanche nello stadio di crisalide ebbi pace: le api usavano il mio involucro per affilare i pungiglioni e le cicale non mi facevano dormire.
E io mi facevo forza, e andavo avanti.

Le cose peggiorarono quando divenni farfalla.
«Sei solo una cavolaia!» mi ripetevano.
Mi sentivo tanto sola.

Incontrai un calabrone, molto distinto nel suo frac, e me ne innamorai perdutamente.
Mi mise incinta e mi abbandonò su una foglia di malva, che è il massimo della miseria.
Da quella unione sfortunata nacque un bruco verde e peloso, e tutti andavano dicendo che mi somigliava.
Io mi facevo forza, e andavo avanti.

Con il mio piccolo affrontai la pioggia, la neve, il vento e i bambini dell'asilo.
Mi ferirono le ali, mi staccarono le antenne.
E io mi feci forza.

Volevo anche andare avanti, ma fui catturata dalla Vispa Teresa.

Non aveva ancora studiato la celebre poesia a lei ispirata e mi stritolò.



mercoledì 26 novembre 2014

Racconti fatali: ODISSEA DI UNA FORMICA NANA

Olga viveva nel formicaio di un parco, dove tutte le altre formiche la emarginavano perché era nana.
Essendo inabile al trasporto dei chicchi di grano, fu scritturata da un circo come clown.
Là si sentiva molto amata.

La sera, dopo l'ultimo spettacolo, rimaneva a giocare a carte con il domatore di vermi e spesso andava in discoteca con le pulci ballerine.

La carriera artistica le stava dando grandi soddisfazioni.

Olga riusciva a far ridere i girini, le api e persino i bozzoli (un pubblico notoriamente difficile).
Le altre formiche cambiarono atteggiamento verso di lei, acclamandola come una diva.
In poco tempo diventò l'attrattiva principale del circo.
Le processionarie facevano la fila per giorni, pur di andare a vederla.

Un giorno s'innamorò di un pidocchio trapezista e la sua felicità fu completa.
Ma lui beveva e diventava ogni giorno più brutale. Divenne un essere spregevole che, per pagarsi l'alcool, avviò la povera formica nana alla prostituzione.
«Sei una bestia!» gli disse un giorno Olga e lui, per vendicarsi, la abbandonò in mezzo a una stradina e scappò per sempre sulla testa di un bambino dai capelli molto sporchi.

Stanca della vita, Olga vagò disperata per mesi nel parco, percorrendo metri e metri.
Una lumaca dolce e gentile le concesse un passaggio e, saputa la sua storia, volle riportarla nel formicaio.
Passò un mese e un altro ancora.
Quando arrivarono a destinazione, il formicaio non c'era più: il bambino con i capelli molto sporchi lo aveva distrutto con la sua paletta.
La povera formica nana, presa dal panico, cadde dalla lumaca e morì, per giunta schiacciata da una pigna che si era staccata proprio in quel momento da un ramo.




martedì 25 novembre 2014

Racconti fatali: STORIA DELLO JODEL

Lo Jodel era un uccello preistorico mezzo giallo e mezzo nero.
I suoi genitori, uno pterodattilo piuttosto provinciale e una graziosa piro-piro delle paludi, avrebbero voluto che diventasse un ufficiale dell'aeronautica.
Ma Jodel non riusciva a volare. Soffriva di vertigini e voleva fare la soubrette di varietà.

Un giorno suo padre lo portò sulla cima dell'Himalaja e lo abbandonò, convinto che ciò lo avrebbe spinto a volare.
Jodel era disperato: sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di tornare indietro.
Durante una fredda notte dell'era glaciale, gli apparve in sogno una gallina padovana, che lo rassicurò: «Non temere, figliolo, sono qui per aiutarti. Ecco, prendi: con quest’armonica a bocca fatata riuscirai a esaudire ogni tuo desiderio».
Come per incanto la gallina svanì e Jodel si ritrovò con un'armonica a bocca tra le zampe.
Cominciò a suonare un motivetto malinconico, esprimendo il suo desiderio di poter scendere dalla montagna.
Uno yeti
 che abitava da quelle parti, seccato per la lagna, lo prese per le ali e lo rispedì in pianura con un calcio.
Jodel era felice. Il suo desiderio si era avverato anche se, nell'impatto con il terreno, aveva ingoiato l'armonica.
Da quel momento, ogni volta che apriva il becco, emetteva solo il caratteristico suono che lo avrebbe reso famoso in tutti i tempi.

La sua leggenda varcò le frontiere. Venivano a vederlo da tutte le parti del mondo.
Jodel si esibiva in un locale frequentato abitualmente da brontosauri in cerca di facili avventure, "La Grotta del Vulcano", e ogni sera il clima era incandescente.
Le folle impazzivano per lui. Incise un disco di pietra che subito salì in testa alle classifiche, superando l'hully-gully e il ballo del qua-qua.
I tirannosauri lo ballavano dalla mattina alla sera, provocando non pochi disastri tellurici.

Il sogno di Jodel di lavorare nel mondo dello spettacolo, dunque, si era avverato.
Decise quindi di andare in cerca della sua benefattrice, la gallina padovana, per ringraziarla.
Viaggiò per anni e anni, superando mille difficoltà e accompagnandosi col suo canto. Finché un giorno, mentre sorvolava il Tirolo su uno pterodattilo di linea, morì strozzato da una pillola per il mal d'aria che gli era andata per traverso.




Racconti fatali: STORIA DI BETTY SINGER



Ho avuto una vita difficile, piena di problemi.
La prima volta che ho tentato di suicidarmi avevo cinque anni. Ingoiai un flacone intero di compresse per il mal di gola. Stetti molto male, ma non morii e mi venne una voce stupenda.
Così iniziai a cantare e da allora mi chiamarono Betty Singer.


Per qualche tempo ho cantato l'Ave Maria ai matrimoni. Poi sono passata al night e infine in un'orchestra romagnola di liscio. È qui che ho incontrato lui, Raoul Tortellino: era bello, forte e suonava il triangolo.
Andammo a vivere per quattro giorni nella soffitta di una casa di riposo. Poi mi lasciò per mettersi con Rosa La Tettona, che ballava bene la mazurka.

Tentai il suicidio per la seconda volta, usando compresse contro i reumatismi.
Non stetti male neanche un po' e non ebbi dolori per tutto l'anno.
Trovai lavoro presso un'agenzia pubblicitaria: cantavo il motivetto di "Caramelle buone e belle".
Qui incontrai Fred Dolone, che faceva la pubblicità alla coperta termoelettrica "Brivido notturno".
Fu un grande amore.
Ma il destino infame volle portarmelo via.
Una notte, Fred morì fulminato per un corto circuito alla coperta.
Al suo funerale c'erano tutti: Camilla la dentiera che brilla, Settebello in due è più bello, Grassottino il biscotto del mattino, Ciak castoro dal dente d'oro e Ciak si gira.

Mi ritrovai sola e disperata. E ingrassata di trenta chili per via delle caramelle.
Non avevo mai sopportato la ciccia: decisi di fare una dieta dimagrante drastica e digiunai per due anni.
Diventai bellissima, alta, snella e con gli occhi azzurri, e fui scritturata come show-girl in un musical di Broadway.
Fu un successo, diventai famosa.
Avevo anche incontrato l'uomo della mia vita, Al-Clic Newman, un fotografo di grido. Insieme comprammo una villa con piscina ed eliporto a Beverly Hills.

Ma finì subito tutto perché presi un gran raffreddore facendo il bagno.
Ero allergica all'aspirina e morii.


giovedì 20 novembre 2014

APLOMB

  • Perfetta linearità verticale di una giacca o di un abitoo, in senso figurato, compostezza, autocontrollo. È l'aplomb. Che bella parola... bella piena... che rimbomba... aplomb... 

  • Io sono stata educata all'autocontrollo fin da bambina. I miei genitori non lo chiamavano aplomb perché persone semplici, lo chiamavano "se non stai zitta t'arriva una pizza".
  • Di per sé l'autocontrollo, anticamera della diplomazia, è una cosa elegante, utile nei rapporti interpersonali. Dà anche un certo stile. Sei sempre sorridente, gentile, caruccia, non ti sfiora niente, non c'è mai problema. Invece il problema c'è. Perché forse la gente non si rende conto che certe cose mi fanno incazzare. Che non è vero che mi sta tutto bene, che non mi accorgo di quello che non va. Sono acidissima dentro e mi accorgo di tutto.
  • Al lavoro per esempio non tollero la mancanza di professionalità e chi mi boicotta: perché non lo sbatto al muro? Perché non lo svergogno pubblicamente? Perché non assoldo un killer per farlo uccidere?
  • Colpa di questo cazzo di aplomb.


mercoledì 5 novembre 2014